Sensore simil-webcam posizionato sopra il monitor, collegamenti controllati, alimentatore inserito nella presa. Dovrebbe essere tutto OK. eccitazione al massimo, il futuro è sulla mia scrivania. Schermo nero… e poi…
La seconda onda della VR stava arrivando e decisi di cavalcarla.
Tutto nasce con la prima esperienza in VR che fu a metà degli anni ’90 con un’esperienza di volo sopra una città. Devo essere sincero, ma quella volta non fui particolarmente colpito, la nausea, dovuta al ritardo delle immagini sui miei spostamenti, superava il piacere del volo. Poi persi di vista quel mondo fino a cavallo del millennio quando l’acronimo VR ricomparve preceduto da altre due lettterine ovvero QT. QTVR era una formato di QuickTime che permetteva di creare dei panorami fotografici sferici. In quel periodo lavoravo per un progetto europeo che prevedeva la possibilità di entrare nei vari laboratori scientifici del torinese utilizzando la tecnologia VR. Non servivano visori ma anzi, non erano proprio previsti, ma si poteva navigare nei vari luoghi cliccando su degli hotspot. In pratica era una sorta di StreetView ante-litteram. Dopo quei due anni del progetto l’acronimo VR e la realtà virtuale scomparvero dalla mia vista e ricomparivano ogni tanto sotto forma di film o libro di fantascienza, oppure mi capitava di leggere qualche saggio o qualche filosofo contemporaneo che analizzava i mondi virtuali. Tecnologicamente era tutto in stasi fino al 2012 quando un ragazzo di vent’anni che viveva in un camper lanciò una campagna su Kickstarter che creò la seconda onda della realtà virtuale. Se volete conoscere la storia di Palmer Luckey e di come Oculus è diventata l’azienda che è ora vi consiglio la lettura di The history of the future di B. J. Harris con una bellissima introduzione di Ernst Cline.
A quei tempi seguivo parzialmente il mondo della VR, erano notizie che comparivano sul mio feed rss. Ad un certo punto iniziai a leggere le notizie con più costanza e vedevo che si stava muovendo qualcosa. Nel 2015 trovai un Rift DK usato e iniziai a fare le prime prove. Era ancora acerbo, molto instabile ed effetto nausea sempre in agguato, ma ripensandoci era stupendo, eccitante. La sensazione di entrare in un campo inesplorato e la prima volta con la possibilità di creare mondi ti faceva sentire un novello Henry Case.
… e poi lo schermo nero si animò e mi presentò la sfera che avevo appena creato.
Ero sull’onda, ancora in equilibrio precario, ma stavo “surfando” (termine ormai desueto per indicare negli anni ’90 la navigazione sul web ma che sta bene anche per la realtà virtuale). I sogni di una gioventù passata a leggere Gibson e Sterling, ad immaginare il metaverso di Stephenson, tutto stava diventando reale.
Adesso sono qui, nel mio Fluidoverso, il mondo creato su AltspaceVR, una delle ormai tante piattaforme social, sto finendo di creare, precisamente sto modificando un mondo che avevo iniziato a creare tempo fa quando AltspaceVR era ancora embrionale ma perfettamene funzionante. L’altra sera ho partecipato ad un evento legato all’educazione in VR. Ci siamo trovati in tanti e si è probabilmente creata la prima comunità italiana su AltspaceVR. C’erano prevalentemente insegnanti che volevano capire se questa tecnologia può essere loro d’aiuto in questo periodo molto particolare. L’evento è stato molto seguito e nuovi contatti, amicizie per ora virtuali (appartenenti alla virtualità e non fittizie – sulla definizione ed il termine virtuale ci si deve effettivamente ancora mettere d’accordo) si sono create. La realtà virtuale sta diventando qualcosa di concreto e qualcosa che va oltre il discorso del gioco. Forse questo periodo di emergenza, di isolamento forzato ci farà comprendere l’utilità e le potenzialità di un mezzo del genere, ma tenendo sempre a mente che la realtà virtuale è uno strumento per la realtà e non una soluzione alternativa alla realtà stessa.
Se volete sapere di più sui Social VR ascoltate l’episodio 25 del mio podcast Sulla linea di stitching.